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La montagna incantata

 

(il prato delle Macinaie innevato)

 

Venendo da Santa Fiora, oltrepassati Marroneto e Bagnolo, c'è una strada che porta proprio in cima al monte Amiata ed è così piena di suggestioni che, una volta che la conosci, ci torni per farla ancora, anche se non devi salire alla Vetta. A un tratto la strada solca una grande e morbida collina vestita di abeti. Sono alti, diritti, allineati a distanze regolari. E' improbabile trovarne due vicini tra loro molto più di quanto lo siano gli altri, o un tratto dove non ne siano infissi la quantità prescritta.
Ma non è opera dell'uomo, che non saprebbe disporli così ordinati perchè, se provasse a farlo, loro non gli darebbero retta. Alcuni non attecchirebbero, altri verrebbero uccisi dalla supremazia di quelli accanto. In seguito, coi decenni, la natura giungerebbe a darsi l'ordine suo, come ha fatto su quella collina e come fa sempre, con metodo testardo e immutabile.
Prosperano soltanto dove e quando c'è lo spazio giusto: se ce n'è poco il più gracile, cioè quello con la posizione iniziale più sfavorevole, deperisce finchè soccombe, lasciando il dovuto ambito vitale agli altri: Se ce n'è in abbondanza uno nuovo fluisce dalla terra attraverso un seme, caduto insieme a tanti altri, eppure il solo destinato dal caso a una procreazione fertile.
Quando uno degli abeti, già adulto, muore per il fulmine o schiantato dal peso della neve o perchè ha concluso il suo ciclo, ecco che un insolito brano di cielo si apre, una quantità inconsueta di rugiada giunge al suolo, una razione di nutrimento della terra è d'avanzo. Così un germoglio s'affretta a salire verso quell'insperato dono di luce e la sua stenta vita tripudia improvvisa. Per anni lo puoi vedere andar su così sottile e diritto, preciso e senza scarti che ti pare scivoli ubbidiente lungo una guida precostituita. Per anni si nutre soltanto del sole di mezzogiorno, perchè quello inclinato del mattino e della sera non gli tocca. Per anni la pioggia, specie se cade a vento, lo bagna dopo aver lavato gli altri ed esso non può sentirsi allacciato alla nubi dalla gremita imbastitura delle gocce. Eppure, ostinato, s'incaponisce a salire, a salire finchè, col favore di un'ultima primavera, eccolo là, a guardare alla pari con gli altri un panorama di cima verdi. E s'è già scordato di quando aveva intorno e addosso solo un'oppressiva legione di tronchi ruvidi e marroni, ma non insuperbisce e non progetta predomini che non ci potranno essere, perchè non ci sono mai stati.

Di storie così, in un bosco come quello, ne iniziano e se ne concludono di continuo, ma sempre a discrezione della natura, non con i ritmi chiesti dall'uomo ed è solo per questo, grazie a questo, che un bosco così si veste di fascino.
Ci sono più stagioni per poterselo godere e più ore del giorno per ammirarlo. D'inverno con la neve, ogni fusto è come un cero infisso nella sua torciera allargata dalle colature, mentre i rami, ingoffiti dal viluppo candido, pendono sfiniti. Ogni tanto una di queste matasse gelide scivola, cade ai piani sottostanti e libera anche quelli dal loro fardello, in uno sfarinio luccicante. Allora vedi le frasche, ingobbite e scarmigliate, dare una frustata, scrollarsi come fa un cane infradiciato e piano piano riprendere l'ordine spettante. Gli aghi verdi si allineano compiti riformando le giuste strutture e i rami riprendono la posizione loro, a formare col tronco l'angolo consueto. C'è un silenzio che non pare terreno, solo tu lo puoi snaturare, ma già ti pare una mancanza di rispetto lo scricchiolio della neve sotto gli stivali, parlare sarebbe un sacrilegio e, se c'è bisogno, lo fai sottovoce. Non ci sono voli nè gridi, gli uccelli per lo più sono scesi verso il piano, mentre gli altri animali della montagna o dormono infagottati nelle loro riserve di grasso sotto qualche radice o stanno, nascosti e sconsolati, ad aspettare che il peggio passi. Quelli che si azzardano fuori lo fanno circospetti e silenziosi e non aggiungono parvenze di vita allo scenario. 
Nelle altre stagioni il momento più bello è l'alba, o almeno l'ora del primo sole: esso prova radente a sgattaiolare tra un tronco e un altro, ma non giunge a poterti guardare negli occhi. Sbatte, rimbalza, si frantuma, trova un varco, incespica e si disperde ancora finchè, disarticolato e tenue, resta a pulsare a mezz'aria. Il suo balenio risulta domato dalla solenne trama del bosco, eppure, anche se incipriato dai velami che fumigano al suo tepore, è lì, sai che c'è e ti dici: tra un momento vince. E aspetti curioso che lo faccia, per vedere dove cadrà la prima stilettata di luce viva.
Se poi per la strada tortuosa della Vetta continui a salire, il fondale muta: i grandi faggi contorti e colorati invadono il proscenio e gli spazi si dilatano. Pietre parlanti dicono di quando furono sputate dal vulcano in ere trascorse, di come furono sfaccettate e incavate dai secoli e di cosa oggi tentano di apparire: una torre, un volto o il profilo grifagno d'un falco.
Certo, ci vuole un pò di benevola ispirazione, ma, a possederla, puoi anche andare oltre e trovarti, una sera verso il tramonto, a incontrare tra le felci alte un essere snello e danzante che, mentre trabalza rapido dietro un cespuglio, si lascia vedere per un istante con la barbetta, con quelle piccole corna appuntite, quei piedi caprini sotto ai ginocchi ossuti e il flauto tra le mani.
E se ti accade, nel più folto del bosco, di imbatterti in una capanna disabitata e lì accanto di scoprire due vecchie piante, l'una accosto all'altra, che pare si tengano per mano, è soltanto perchè non sono una quercia e un tiglio che non ti convinci d'aver incontrato Filemone e Bauci.
E' a guardarla con questi occhi che ci si innamora della mia montagna e anche qui, come per il turgore dei suoi orti, mi faccio scrupolo a scommettere che sia la più bella solo per non sembrare un provinciale campanilista.


(tratta da "Lo zufolo di canna" di Franco Lazzarini, edizioni Cassero del Sale, Grosseto, 1993)