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La fiera di Castel del Piano

 

Era normale non andare a scuola la mattina del venti gennaio, il giorno della grande fiera del mercatone di San Bastiano. Ricordo quella del 1940.
Anch'io quella mattina non andai a scuola, però di buon ora mi recai prima in chiesa dal Proposto, ch'era mio zio don Natale Gallorini, per servire due messe. Una con don Romolo Romboli, parroco di Roccalbegna, la seconda con don Francesco Pellegrini, parroco di Cinigiano, cioli tutti e due. La mancia che mi dettero fu di una lira ciascuno, così mi trovai con due lire in tasca e partii per la fiera. Incontrai subito in piazza i miei amici Felice Moroni ed Ennio Mearini, con cui si frequentava la stessa scuola. Era costume di iniziare da fondo al borgo.
C'erano i banchi della pannina, tagli di stoffa lunghi, di colore grigio e marrone, chiari e scuri, neri e blu. I venditori facevano salire su uno sgabello a scale chi voleva acquistare e gli mettevano il taglio sulla spalla: facevano divenire giganti anche uomini molto piccini, facendo scendere la stoffa due scalini sotto i piedi. Poi chiamavano la gente e chiedevano: "Come vi pare? E' più bello?". E tutti ne convenivano.
Quindi si veniva davanti al Bardelli, dove c'era il banco-barroccio di Pietrino Chei, detto anche il Fusaino, che veniva da Badia Prataglia di Arezzo. Dopo due giorni di viaggio con barroccio e due cavalli arrivava la sera tardi al podere del Colombaio, dove stava il mi' zio Poldo, e qui veniva ospitato. Il barroccio era pieno degli oggetti di legno costruiti da Pietrino e dalla sua famiglia: fusi per filare, sete e setini per setacciare la farina, palette e taglieri, mesculini, passatoie e preti per mettere lo scaldino a letto.
Quando noi ragazzini si fu davanti al barroccio, ci si fermò. Pietrino era furbo e trattava con una donna la vendita di un prete. Chiedeva sei lire, la bella mora gliene voleva dare cinque. Ma Pietrino fu irremovibile: "Te meno di sei lire il me' prete non ce ne porti a letto. Anche se so che qualche altro prete pe' venì nello stesso letto te ne darebbe dieci e anco quindici".
Andando più su, davanti alla farmacia, c'era il banco dei chicchi. A venderli erano due anziani di Arcidosso, ciarpa nera con frange lunghe lei, occhialoni spessi lui. Poche caraffe sopra un tavolino nero, con dentro i sigarini di tutti i colori, come l'arcobaleno, e il sugarorizio (bastoncino di liquerizia). Noi si comprò il sugarorizio, perchè faceva venire la bocca nera e perchè durava di più.
Più in là, davanti all'edicola, dove allora c'erano i pisciatoi, c'era il grande banco del Baietto, tutto di ferramenta, arnesi agricoli e per boscaioli, falci, zappe, picchette, pale, pennati, farcini... Baietto portava un cappellone nero con falde grandi e un fiocco nero. In quel momento, mentre si passava noi, Baietto fece cadere una falce fienaia sopra la massicciata della strada (allora solo imbrecciata) per dimostrare ai clienti che era di acciaio puro. Il contadino che voleva comprare la falce era vestito di velluto, con un cappellaccio in capo, era grosso e basso e a noi non ci garbava. Baietto gli chiese quindici lire, il contadino ne offrì otto. Baietto lo guardò dall'alto in basso e gli disse:"E ti 'eggo bello e vestito bene, gira e vai".
Si andò ancora avanti, e davati a Iadere fotografo c'era un cantastorie con la fisarmonica, che cantava una storia triste e dolorosa: quella di un contadino che aveva ammazzato un ragazzino di undici anni per avergli rubato quattro pere.
Noi avevamo undici anni, e una volta d'estate nel campicinchio dell'ingegnere Giannelli di pere se ne rubò almeno venti. La paura ci prese davvero quando si avvicinò al cantastorie una donna vecchia e grossa, la pora Brocia della Casella Alta, con un fazzoletto grande in mano, gli cascavano i lucciconi a venti metri prima di arrivare, piangendo: "Poro cittino, 'sta creatura, 'sto delinquente l'ha ammazzato".
Dall'angolo del piazzone si vide poi un branco di uomini, quasi tutti vecchi, ammucchiati dietro al monumento del capitano Santucci. Io e i miei compagni si andò subito a vedere che facevano raggruppati dietro le piante di alloro della piazzetta (furono seccate dal gelo del febbraio 1956, i cedri attuali sono stati piantati nel 1957). Erano tutti intorno a un uomo che li invitava uno alla volta a sedere su una sedia con una spalliera alta come una poltrona. Si vide che gli cavava un dente a ciascuno, si udì che qualcuno berciava. Dopo la cavatura, il cliente andava nell'ultimo pinzo del giardinetto a sputare, ripulendosi un pò con il fazzoletto, poi aspettava. Quando erano due o tre clienti, andavano col dentista dal Capone, a bere un cognacchino che serviva anche da sciacquo. Dopodichè il dentista ritornava al suo lavoro. Lo chiamavano chi Leoni, chi Meco, chi dentista. Con la sua pinza sanguinante in mano, svolgeva il suo lavoro alle fiere. I suoi clienti erano i contadini e la gente del paese che, approfittando della fiera, si faceva levare i denti bacati più grossi, dando al dentista poche lire. Io e i miei compagni eravamo impauriti, schifati, ma eravamo bloccati lì per la curiosità.
Poi ci si avviò verso il Piazzone; ai vecchi olmi che lo circondavano (tagliati nel 1951) erano legati tanti asini e qualche cavallo. Nel mezzo del Piazzone, allora campo sportivo e di calcio, con le porte murate, c'era qualche centinaio di vitelli, di bovi maremmani e chianini.
Davanti al consorzio agrario, fra tanta gente che guardava, c'erano quelli del gioco "cartina vince, cartina perde" e di quello del chicco di pepe nascosto sotto uno dei tre campanellini. In realtà il chicco di pepe restava sempre attaccato dietro il mignolo del prestigiatore, ma le vittime di questo imbroglio erano tante. Noi si pensava che fossero locchi.
Poi si assistette alla vendita di un asino da parte di un asinaio di Seggiano, il babbo di Boccabella, un ragazzo della nostra età. Prima ci fu la prova della corsa lungo il viale del consorzio, per vedre se l'asino era spallato. Poi gli si guardò in bocca per accertare l'età.
Dal Piazzone alla piazza dei maiali, l'attuale parco dei ragazzi. Era uno spiazzo brullo, c'erano costruiti due muri, il primo alto due metri arrotondato alla fine, l'altro alto tre e pieno di spigoli. Il maialino il 20 gennaio lo compravano solo le famiglie di piccoli proprietari che avevano il mangime per portarlo avanti. Le famiglie più povere lo compravano dopo Pasqua, alla fiera di San Vincenzo. La mattina della grande fiera c'erano tante ceste di legno intrecciato. Nella mattinata avevano contenuto ognuna otto o nove maialini tutti fratelli, ma siccome venivano venduti per primi sempre i meglio, quando erano rimasti tre o quattro animali per ogni cesta, i loro ospiti non erano nemmeno cugini.
Nella piazza dei maiali si sentì sona' il mezzogiorno, così si corse tutti a casa a mangiare. Verso l'una ci ritrovammo sotto la porta dell'Orologio. La mattina si era comprato il sugarorizio, nel pomeriggio si comprò i lupini da Giangio, che era il babbo di Amata dell'albergo Manfredi. 
Giangio vendeva i lupini, i semi, le nocciole, le purnelle secche. Aveva una paniera a quattropiani e si metteva a vendere all'angolo del Rombuli sotto la porta dell'Orologio. Su ogni piano del paniere teneva tutto quel ben di Dio, ma noi ci si contentava di un bicchiere di lupini da dieci centesimi. I bicchieri parevano grandi, ma erano di culo grosso.
Poi si andò a vedere l'anguilla. La vendeva una donna di Piancastagnaio dietro l'angolo di Telemaco, tenendola dentro un bigonzo di legno rettangolare. Noi si guardava come ora si guarda un acquario. Una volta un vitello, durante la fiera, non so come scaricò dentro quel bigonzo. La donna, che si chiamava Beppa, non buttò l'anguilla, ma la ripulì bene, e poi, coprendola con un tovagliolo bello e bianco, la rigirò gridando a squarciagola: "Marinataaa!".
Continuando si trovava intorno all'obelisco di piazza Garibaldi, Crementa, detta la Gobba del Nicale, che vendeva stringhe, corregggioli di cane, triccioli per le mutande lunghe ed elastici per reggersi le calze, in un paniere ovale.
Ma già si stava facendo tardi e bisognava agginarsi. Allora si andò a fa' due tiri alla carabina del Padellina sotto la torre del Proposto. Ma c'era una folla di contadini avanti, e a noi non toccava mai.
Appena abbrucciò, ci fu il rientro di centinaia di persone. Tanti erano briachi, cantavano e si accompagnavano a vicenda, scappando dalle botteghe di vino e dalle frasche. Questa gente si vedeva di rado, erano contadini che venivano dalla campagna dei comuni vicini, si incontravano con i braccianti che a giugno sarebbero andati a segare il grano nei loro poderi. Erano uomini, che tra un bicchiere e l'altro, durante la giornata di fiera, si erano raccontati i loro drammi, i loro impegni, le loro passioni, i loro ricordi di gente che lavorava tanto e godeva poco.
Prima di anda' a casa si ritornò a vede' se il dentista c'era sempre. Aveva smesso di lavorare ed era vicino al bar del Capone quando gli domandarono: "Leoni, com'è andata oggi?". Lui stese un fazzoletto su un tavolino all'aperto e si mise a contare i denti cavandoli dalla giubba di velluto alla cacciatora. Alla fine del conto disse: "Questi so' ventidue, poi quattro non so' voluti venì e tre ci avevavo il frenulo: gli ho detto di rivenì a quest'altro mercato".


(tratta da "Diario d'Amiata", di Alvaro Giannelli, edizioni Liberetà, Roma, 1998)